venerdì, giugno 22, 2007

Fuga d'amore?

Le vacanze? Con il fidanzato! Se quello ufficiale non può perché iperindaffarato con il proprio business… si va con “quello coi tacchi”! Che problema c’è? Vi saluto, ci vediamo la prossima settimana con il racconto di una minivacanza fra donne nell’isola dell’amore!

Vacances? Avec le fiancé, bien sure! Mais quand celui, l’officiel, est iperoccupé avec son business… faut il s’arranger avec l’autre… celui à talon aiguilles ! Quel est le problème? Je vous souhaite un bon fin de semaine et je vous dis au revoir à jeudi prochain avec les racontes d’une mini-vacance entre femmes dans l’île de l’amour !

giovedì, giugno 21, 2007

Solstizio d’Estate

Impossibile pensare che mi dimentichi di ricordare che oggi è il compleanno dell’estate, vero?! Eh si, salutiamo la Primavera ed accogliamo l’Estate! Se vogliamo fare un paragone fra il nostro ciclo e quello di Madre Terra, possiamo dire che adesso lei si trova proprio all’inizio della fase della Madre: è in ovulazione! :) Auguriamo quindi a Madre Terra una piena fecondità.

lunedì, giugno 18, 2007

V capitolo - Un vicolo cieco

Da un’amica comune ero venuta a conoscenza del fatto che mio marito aveva ripreso a frequentare dei vecchi amici, soprattutto uno, Michele, un tizio con il quale non ero mai andata d’accordo per i suoi modi arroganti e la sua smodata misoginia. Michele era di famiglia benestante e la vita era sempre stata facile per lui. Gestiva una piccola azienda che il padre gli aveva procurato ma era sempre in giro con la sua macchina sportiva e dei suoi affari si occupava poco. Troppo poco, appunto. Ci eravamo scontrati varie volte, rimanendo su toni cortesi, ma era evidente che non mi sopportava e a lungo andare avevamo smesso di frequentarlo. L’occasione deve essergli parsa ghiotta: aveva finalmente la possibilità di farmela pagare. Roberto era in un momento di forte fragilità e anche se quella di separarci era stata una decisione comune si sentiva abbandonato. Era soprattutto tanto arrabbiato con me, covava un infinito risentimento ma non riusciva, o non voleva riuscire, a focalizzarne la ragione. Ci pensò Michele a insinuare nella sua mente tutti i dubbi e le incertezze che poté. Ogni sera se lo trascinava dietro per locali ed ogni sera Roberto rincasava ubriaco e spesso, in quello stato, mi chiamava. Per me ricevere quelle telefonate nel cuore della notte e sentirlo in quello stato era uno strazio. Trascinava le parole e mi diceva cose orribili e senza senso che mi lasciavano in uno stato di forte choc. Conclusa la telefonata me ne restavo per ore seduta sul letto, tremando. Molte volte ero stata tentata di dirgli di tornare a casa ma facendo violenza su me stessa mi trattenevo. Sapevo infatti che, in caso avesse accettato, la convivenza sarebbe stata disastrosa. Ma temevo soprattutto che non accettasse. Sapevo che avrei avuto una sola occasione con lui. Una volta che mi avesse detto no, no sarebbe rimasto per sempre. Era troppo orgoglioso, Roberto. Ma sapevo, ero certissima che mi amava da morire, così come io amavo lui. Era solo un periodo nero, tutte le coppie ne affrontano diversi nella vita, di periodi così.
Non sopportavo quelle telefonate, eppure le aspettavo. Quando il telefono non suonava facevo le peggiori congetture e vivevo nell’ansia fino a che non riuscivo ad avere sue notizie per vie traverse. Mi rifiutavo di cercarlo direttamente. Il suo orgoglio mi aveva contagiata e le cose andavano sempre peggio; questa separazione, invece di aiutarci a trovare un equilibrio ci stava allontanando sempre di più. Eravamo entrati in un circolo vizioso di rancore e risentimento, rabbia e frustrazione. Avevo perso quel po’ di lucidità che mi aveva guidata durante tutto quel periodo, che mi rendeva certa del fatto che stavo facendo la cosa giusta. All’inizio desideravo che riuscisse da solo a trovare la propria serenità, ero convinta che solo così poteva trovare una serenità vera. E invece, da solo era sempre più smarrito. E anche io.

Ci eravamo conosciuti dieci anni prima, io e Roberto. Eravamo entrambi molto giovani. Rimasi subito affascinata dai suoi modi cavallereschi, dai suoi occhi sinceri e magnetici. Parlavamo per ore ed ore, dimenticandoci di tutto intorno a noi. Ci raccontavamo tutto e ci sorprendevamo continuamente di pensieri e desideri comuni. Ci innamorammo perdutamente uno dell’altra in pochissimi giorni. Aveva molti interessi e una discreta cultura nonostante avesse interrotto gli studi – all’epoca disse perché aveva bisogno di lavorare e gli credei perché non poteva esserci altra ragione valida – oggi so che lo fece perché non era sicuro di potersi meritare di avere ambizioni che lo spingessero più in là di ciò che aveva fatto suo padre.
Sulle prime mi sentii un po’ soffocata dalla sua continua richiesta di attenzioni ma allo stesso tempo non avrei saputo fare a meno delle sue. Era un po’ troppo possessivo forse e dovetti a mano a mano rinunciare a molte delle mie amicizie e a difficoltà riuscivo a mantenere una certa indipendenza. Non era geloso solo degli amici ma anche dei colleghi e a fatica si tratteneva dal fare commenti spiacevoli. Era però molto garbato con me, mi riempiva di pensieri romantici, riusciva sempre a sorprendermi con piccoli gesti. Il nostro tempo libero lo passavamo quasi esclusivamente insieme e riuscivo a coinvolgerlo in molte delle mie iniziative. Facevamo tanti progetti e fin da subito eravamo certi che il nostro futuro sarebbe stato insieme. Ero felice, nonostante oggi mi renda conto che il nostro era un rapporto forse un po’ troppo esclusivo che ci isolava dal resto del mondo impedendoci una crescita individuale parallela a quella di coppia. Fu questo soprattutto che ci portò inesorabilmente a quella rottura, non certo la mancanza di amore.

L’acqua è ormai fredda e la mia pelle raggrinzita. Uno spasmo di brividi mi scuote riportandomi ad una certa lucidità. Esco dalla vasca, mi avvolgo in un morbido telo di spugna e mi siedo sullo sgabello di legno intagliato, cimelio di uno dei tanti viaggi fatti in Europa orientale. Ripenso a quando lo acquistammo, io e mio marito. Eravamo in Bosnia, l’anno dopo la fine della guerra. Ripenso allo sgomento nei nostri occhi visitando quelle regioni martoriate dalla barbarie della guerra, rifletto sul senso dell’odio, a cosa porta all’incapacità di dialogare e alla scelta della violenza come soluzione. Non riesco ad andare oltre in questi pensieri, finisco di asciugarmi, vado in camera da letto e mi metto sotto le coperte. John Carter mi segue e si accomoda sui miei piedi.

venerdì, giugno 15, 2007

IV capitolo - Il gatto

Ogni donna dovrebbe avere un gatto. E’ un animale indispensabile alla donna, l’unico animale capace di starle accanto in modo paritario. Il gatto e la sua donna - forse è più corretta come definizione del rapporto - sono legati da profondo rispetto e fiducia. Il gatto insegna l’arte del distacco, della pazienza, insegna a sentire, a riconoscere i segnali, ad acuire i sensi, ad affinare le percezioni sottili. Apprende alla donna a cogliere i segni ed i messaggi, a formulare le risposte alle proprie domande partendo dalle coincidenze e a schivare i tranelli della psiche. A spogliarsi dal mondo contingente e a scendere dentro il proprio inconscio. A sentire la ciclicità della Natura e quindi la propria. Nessuno però, può capire la loro lingua segreta, fatta di sguardi, passi, contatto, movimenti, posizioni fisiche, rituali. Questo non significa che ogni donna che possiede un gatto presti attenzione ai suoi insegnamenti.
Quando decisi di prenderlo con me, John Carter, era molto piccolo, non aveva ancora aperto gli occhi del tutto. Era in una gabbia con i suoi otto fratellini ed attirò subito la mia attenzione. Decisi però di prendere una femmina visto che i due maschi che avevo avuto precedentemente erano morti a causa delle loro scorribande procurandomi molto dolore. Appena allungai la mano nella gabbia per prelevare una femminuccia bianca dal mento nero però, proprio lui, quel maschietto che avevo a malincuore scartato, mi saltò sul braccio e si arrampicò sulla manica della maglia. Mi scelse, così come istintivamente io avevo scelto lui e non esitai un attimo a ritornare sulla mia decisione. Ce lo portammo a casa, allora vivevo ancora con mio marito, eravamo sposati da poco. Lo allevai con una siringa senza ago mescolando omogeneizzati e latte, dormendo la notte con una mano nella sua scatola per rassicurarlo e perché non piangesse. Mi faceva un enorme tenerezza quel piccolo essere che dipendeva da me per ogni piccola cosa. Ricordo che ci mettemmo una settimana a scegliere il nome adatto a quel piccolo essere tremante e poi, proprio per questa sua mancanza di coraggio, confermatasi poi nel tempo, lo chiamammo antiteticamente John Carter, come il valoroso eroe del ciclo di Marte.

Mio marito era morto. Era questa l'atroce realtà dalla quale cercavo ad ogni costo di sfuggire. Avevamo litigato furiosamente, non riuscivo più a sopportare la sua crescente arroganza e la sua presunzione. Ero certa che la sua rabbia dipendesse dalla frustrazione e non riusciva nemmeno ad ammettere di esserne tormentato. Non si sentiva realizzato sul lavoro e non vedeva prospettive e via d’uscita e per questo se la prendeva con me che affrontavo la vita con entusiasmo. Avevo una grande stima per lui, questo lo faceva sentire forte e sicuro. Ma quando si rese conto che capivo il suo disagio, che mi rendevo conto della voragine che lo stava divorando, della sua fragilità, si sentì smarrito, temette che avessi smesso di vederlo come il mio eroe e non mi perdonò mai per questo. Non accettava le mie rassicurazioni, la mia comprensione, il mio sostegno, i miei incoraggiamenti. Erano come pugnalate al suo amor proprio. Cominciò a comportarsi in modo strano, ad allontanarsi. Litigavamo continuamente ormai oppure ci ignoravamo per giorni. Così, dopo poco più di un anno decidemmo di separarci per un po’. Io restai nella nostra casa con John Carter. Lui invece se ne andò nel piccolo appartamento in città lasciatogli da suo nonno paterno. Non era completamente abitabile, aveva quindi deciso di fare delle modifiche e delle piccole ristrutturazioni e speravo che tenendosi occupato con dei lavori manuali, in cui, tra l’altro, era molto bravo, sarebbe riuscito a rasserenarsi.

martedì, giugno 12, 2007

III cap. - L'acqua

Dovevo essermi addormentata sul parquet, davanti alla porta. Un lieve chiarore filtrava dall’incrocio delle pesanti tende. Mi alzo dolorante e percorro quasi automaticamente il corridoio entrando in bagno. Apro il rubinetto della vasca, cerco la temperatura giusta. Mentre si riempie non so se guardarmi allo specchio. Cos’è successo? Mi spoglio lentamente, spargo un paio di manciate di sali da bagno nell’acqua. Il profumo acuto arriva alle mie narici e mi da un senso di nausea. Sento che ho bisogno di ritemprarmi. Mi infilo nella vasca e senza fare attenzione ai capelli mi lascio andare al calore dell’acqua che subitaneamente richiama ai miei occhi lacrime ed un dolore acuto come un’infinita pioggia di spilli. Un nodo alla gola strozza il mio respiro, e scoppio finalmente in un pianto convulso di singhiozzi e gemiti. E’ evidente che mi è successo qualcosa di molto grave che non ho il coraggio di ricordare ed è altrettanto evidente che non posso permettermi di non ricordare e affrontarlo. Cerco di farmi coraggio ripetendomi come un mantra che sono una donna forte e che non c’è niente che non posso affrontare, che c’è sempre una giusto modo di far fronte a ogni cosa. Mi passo le mani bagnate sul viso più e più volte, come a voler cancellare un pianto rivelatore di una debolezza che sentivo di non potermi permettere. Cogliendo un lieve movimento scorgo improvvisamente una coda dritta con la punta lievemente rivolta verso il basso che si avvicina e vengo immediatamente colta da una sensazione di dolcezza. E’ il mio gatto che sentendomi muovere è venuto a cercarmi, appoggia le zampette sul bordo della vasca ed allunga il muso verso di me, istintivamente mi sporgo verso di lui e prima i nostri nasi e poi le nostre fronti si incontrano affettuosamente. E’ il nostro modo di salutarci. Si è accorto che c’è qualcosa che non va, il suo trillo di bentornata si trasforma in un acuto lamento e scoppio di nuovo in un pianto irrefrenabile, non più controllato, moderato dalla razionalità ma liberatorio e fragoroso. E John Carter piange con me.

A pensarci oggi questa scena mi fa quasi sorridere, due scemi, una donna e il suo gatto che piangono all’unisono. Ma sono ancora oggi grata al mio gatto per quel momento di tenerezza che ebbe il potere di rompere finalmente la diga che teneva prigioniera la mia paura, la mia rabbia, la mia impotenza.

venerdì, giugno 08, 2007

II capitolo - A casa

Frugo nella mente e poi nella memoria. Un ufficio, il mio ufficio. La chiave è nel sottovaso dei gerani sulla finestra del mezzanino. Fermo un taxi e salgo subito. Mi porti in via Vesuvio per favore, numero 13. Riesco a rilassarmi un po’, seduta sul sedile posteriore di quella vecchia Fiat. Dopo qualche minuto guardando distrattamente dal finestrino mi accorgo che l’ambiente si fa sempre più familiare. Siamo arrivati, chiedo al tassista di attendermi per qualche minuto perché devo proseguire il mio tragitto. Non sono poi così certa di sapere dove voglio andare dopo ma mi da sicurezza sapere di avere un’auto a disposizione. Salgo le scale di fretta, mi sporgo dalla ringhiera in cerca del sottovaso, frugo, trovo la chiave, la inserisco e spingo la leggera porta a vetro entrando in un buio corridoio. Mi chiudo la porta alle spalle prendendo un grosso respiro, allungo la mano per accendere la luce. Premo l’interruttore ma la luce non si accende, riprovo incredula e niente. Mi torna in mente che proprio qualche giorno prima si era fulminata quella maledetta lampadina e che non avevo trovato il tempo di cambiarla. Mi muovo a tentoni infilandomi nella prima stanza ed accendendo finalmente la luce. Nell’armadietto trovo un paio di calze, un po’ di cotone, del disinfettante. Mi sfilo velocemente le calze e le butto nel cestino, mi disinfetto il ginocchio, una brutta sgraffiatura, metto il cerotto e indosso le calze nuove. Vado in bagno e mi lavo la faccia. L’acqua fresca a contatto delle labbra mi fa trasalire. Ho sete, bevo avidamente l’acqua del rubinetto dalle mani, mi asciugo la faccia e con lo stesso asciugamano mi strofino le scarpe sporche e lo getto per terra. Trovo una giacca a vento sulla sedia dello studio, frugo nei cassetti in cerca di soldi. Trovo la copia delle chiavi di casa nell’ultimo cassetto e una busta, la apro e trovo all’interno 50 euro. Esco di nuovo, chiudo la porta, scendo le scale e raggiungo il taxi. Il tassista riaccende il motore brontolando, mi scuso di averlo fatto attendere. Gli chiedo di portarmi in Piazza Indipendenza al 20. Pochi minuti e ci siamo, allungo i cinquanta euro al tassista senza guardare il tassametro e senza aspettare il resto scendo dall’auto senza salutare. Salgo frettolosamente le scale e spingo il pesante portone che nel frattempo è stato aperto dall’interno. Sorrido alla portinaia distogliendo subito lo sguardo ma non abbastanza alla svelta per non accorgermi che aveva un’aria stupita. Non voglio ancora farmi domande. Sono tentata dall’infilarmi nell’ascensore ma un’improvvisa sensazione di angoscia mi assale facendomi preferire le scale che inizio a salire di corsa non appena so di esser fuori dalla visuale della portinaia. Entro in casa mia, chiudo il portone e mi lascio cadere per terra.

giovedì, giugno 07, 2007

Miguel

Mi è presa così, che ci devo fare! Per me il mio blog è un po’ il mio specchio e fino a questo momento forse non ho avuto il coraggio di riflettermici sul serio anche perché alla fine, un blog è pubblico, con tutti i rischi che ciò può comportare. Non mi ha mai dato buoni esiti il mettermi a nudo, ma forse oggi mi sento più forte ed ho la presunzione di sapermi difendere. E’ vero, do l’impressione di essere una donna forte ma ho le mie fragilità (più che debolezze).
Però non vorrei essere monotona con le mie fragole quotidiane e quindi vorrei per un attimo cambiare argomento. Tutti sanno, anche i muri oramai, che amo Claudio Baglioni. Ma non tutti sanno che un altro mio mito giovanile (non sopravvissuto alla pubertà) è stato l’attrettanto conservato bene Miguel Bosè… che ho apprezzato a partire dal suo Superman passando per i Bravi Ragazzi e Non Siamo Soli. Non se n’è sentito tanto parlare negli anni a parte per qualche ben fatta interpretazione cinematografica (l’ho adorato in Tacchi a Spillo) e qualche disco di poco successo quantomeno qui in Italia. Qualche anno fa uscì con un disco che non mi ispirò per niente. Adesso è uscita la versione spagnola cantata duettando con diverse bellissime voci femminili. Lo voglio! Sono giorni che ce l’ho in testa! Miguelito devi essere mio! :)

mercoledì, giugno 06, 2007

I capitolo - Abbandono

Camminavo. Forse ero troppo vestita per quella stagione, faceva un po’ caldo. Poteva essere primavera. Stavo passeggiando da sola, forse. Ricordo che stavo camminando lungo il ciglio destro di una stradina gialla di terra battuta. Ai lati distese enormi d’erba verdissima. Probabilmente rasata, ma non di recente. A mano a mano che percorrevo quel sentiero una strana sensazione mista fra pace e angoscia si impossessa sempre più di me, si fa pungente, cresce e non so se mi fa male o se mi rende felice ma continuo a camminare. Mi stordisce e mi accorgo che sto piangendo, anzi, che i miei occhi stanno lacrimando, ma continuo a camminare. Sull’altro lato della strada una figura amorevole mi viene incontro, con gli occhi offuscati dalle lacrime riesco solo a vedere i contorni di un enorme albero con le grandi braccia aperte. Senza pormi domande mi getto ai suoi piedi rispondendo all’abbraccio e sopraffatta dall’emozione mi abbandono su quel tronco per un tempo indefinito. Esplosioni di luce mi pervadono i sensi e l’anima, mi scuotono con una dolcissima violenza e sento che sto varcando una soglia, che sto andando oltre. Sento che la mia vita non sarà mai più la stessa. Mi lascio andare a quella dolce onda, a quel fresco tepore, a quella leggera pienezza. Niente ha più importanza.
Mi risveglio e una fredda sensazione di buio e puzzo di fogna mi riportano violentemente alla realtà. Mi rimetto automaticamente in piedi e getto uno sguardo rapido tutto intorno. Poco prima ero seduta sul ciglio di un marciapiede, appoggiata ad un cassonetto dell’immondizia. Che schifo! Mi stropiccio le mani sulle cosce e scruto i dintorni in cerca di qualcosa. E’ già notte, un passante frettoloso mi passa accanto a testa bassa e con le mani in tasca. “Mi scusi…” alza il capo spaventato, lo riabbassa ed accelera il passo scomparendo in un vicolo invisibile, in fondo alla via. In realtà non avrei nemmeno saputo cosa chiedergli. Mi guardo. Le calze sporche e bucate su un ginocchio. Ahi, mi fa un po’ male. Ma cosa è successo? Non ricordo nulla. Fa freddo, sono quasi nuda. Niente giacca e niente borsa, quindi niente soldi, niente telefono. Cerco di ascoltare il silenzio, di riuscire a trovare un appiglio, un rumore che possa guidarmi da qualche parte. Finalmente mi sembra di cogliere un lontano brusio che mi suggerisce la direzione verso una probabile strada trafficata. Il rumore dei miei tacchi sull’asfalto rimbomba in quella solitudine e mi gela l’anima ma non è il momento di farsi prendere dallo sgomento. Stringendomi nelle spalle accelero il passo e ripenso al passante di poco prima. Buffo, mi sto comportando proprio come lui, sto camminando velocemente e a testa bassa. Il suono del traffico si fa sempre più vicino e un po’ mi rincuoro. La direzione è quella giusta. Niente di tutto quello che vedo mi è familiare ma non è il momento di porsi domande. Proseguo a ziz zag in quell’intrico di vie deserte, un gatto mi passa accanto quatto e lesto. Finalmente il buio si rischiara lievemente, ci sono quasi. Ecco, sono finalmente arrivata alla civiltà. Mi fermo a riprendere fiato accorgendomi di averlo quasi trattenuto per tutti quegli interminabili minuti. Mi giro intorno in cerca di qualcosa di familiare e mi avvio intanto verso un bar accorgendomi però di essere impresentabile. Mi fermo a riflettere. Chiunque mi incontri in questo momento mi porrà forzatamente delle domande. Domande a cui non so rispondere e che io stessa sto evitando di farmi ad ogni costo. Non voglio chiedere aiuto. Detesto dipendere dagli altri.

martedì, giugno 05, 2007

Sogno e bisogno

Come tutti, scavando in fondo in fondo, ho un sogno. Un sogno che ho paura e pudore a confessare anche a me stessa. E’ un sogno ed un bisogno. Scrivere. Mi ricordo che da bambina presi un quaderno con l’ambizione di scrivere un romanzo. Ricordo bene il tema, avevo solo 8 anni e volevo scrivere della storia d’amore di Gesù e la Maddalena. Lo avevo già tutto in testa ma scrivere era troppo faticoso e non andai più in là di qualche pagina. Per la mia prima comunione mi regalarono tre diari segreti, di quelli con il lucchetto e da lì iniziai a scrivere i miei pensieri più bislacchi e nascosti. Alle superiori scrissi per un giornale nazionale qualche articolo sulla cronaca locale. Fino ai vent’anni ho tenuto un diario. Quaderni, blocchi, agende, semplici fogli di carta… tutto andava bene per sfogare il mio improvviso, impulsivo bisogno di scrivere, di fissare il pensiero, di far volare la fantasia. Poi il mio ex iniziò a cercarlo e ad andarci a sbirciare. Ricordo che me lo strappò a metà perché non gli piacque quello che ci trovò scritto e così smisi di scrivere. Qualche anno più tardi – dopo che lo lasciai, a pensarci bene – ricominciai. Ricordo che scrivevo sul metrò utilizzando da prima un blocchetto e poi un palmare. Peccato che poi ho perso la memoria di quell’aggeggio infernale con tutte le mie riflessioni e qualche capitolo di un immaginario romanzo introspettivo. Poi arriva il blog e anche tante altre cose che ho scritto per me ma non ho mai pubblicato qui, fino a qualche giorno fa. Non lo so. Sono combattuta. Sono gelosa delle mie intime creature ma desidero dar loro vita propria...

J'ai décidé de maigrir

E’ un mese che ho iniziato la mia dieta. Domani ho appuntamento con una dietologa perché non posso continuare oltre il fai da te. Anche se poi di fai da te non si tratta perché avevo ancora la copia del programma della dietologa che mi seguì quando vivevo a Parigi: una tizia che avevo visto in una trasmissione televisiva che mi ispirava fiducia. In realtà i risultati furono ottimi ma poi, mi sono innamorata e che ne so come mai, mi cambia il metabolismo quando mi innamoro… inizia a fare le fusa e si mette a ronfare sulle ginocchia con nefasti risultati per tutte quelle zone che noi donne sappiamo. Bene… vi starete domandando: ma allora, sei dimagrita o no? Si! Un bel po’! Non si vede tanto perché per fortuna mia non dimostro i chili che ho, così come non dimostro gli anni! Hihi! Sarà vero? Mah…
Sono molto contenta del risultato anche se l’ultimo chilo e mezzo è quello che ha preso più tempo a perdersi, ma è normale… dicono. Ne vorrei perdere almeno altrettanti ma adesso non mi sento più a disagio in un corpo che sto iniziando finalmente a riconoscere come il mio corpo!

lunedì, giugno 04, 2007

Crescere donna

E’ quell’odore di vernice…
che ti riporta nella casa in affitto al mare
che si partiva tutti insieme
La sabbia fredda sui piedi
della mattina presto
con le orme degli uccellini
sotto le sdraio aperte e gli ombrelloni chiusi
Il profumo dei campi con le galline sparse a frugar col becco
e la nonna con il secchio in mano e il grembiule storto
La sensazione del tempo immobile quando si giocava assorti
e la luce bassa del tramonto d’inverno dai buchi delle tende
Nel tepore del primo sole dietro la finestra
l’abbraccio sul lettone della mamma
e la madonnina appesa che tentenna
Le bambole di pezza ed imparare l’uncinetto
E la festa di colori dell’espositore ed un rossetto
che già chiama questa vanità di donna
Lo smalto rosa sulle unghie corte
che poi si riga ma non t’importa
L’odore dei libri di scuola
e delle matite nuove colorate da temperare
Il quaderno con le righe e i compiti da fare
La cartella sulla schiena e la nebbia che si respira
La meraviglia delle parole da leggere e capire
L’orgoglio che ti gonfia il petto
con la pagella da portare a papà
Le mille domande e nessun perché
Il freddo dell’alba alla partenza per la gita
con il pullman e il pranzo al sacco nella stagnola
La prima volta che qualcuno ti ascolta e ti capisce
che ti confidi e ti tradisce
poi capita che potresti vendicarti
ma non sai essere crudele e capisci il senso
della parola migliore
I segreti scritti nel diario col rosa profumato
le foto ritagliate dal giornale con la colla
che si appiccicano tutte e le frasi delle canzoni
Ed esser l’ultima della classe a diventar donna
ed aspettare col mal di pancia quel dolore
E guardarsi nello specchio e toccarsi il seno
di nascosto per nasconderci il cuore
La curiosità e il fremito del primo bacio
Il primo concerto allo Stadio quanta gente
e com’è bello lui, quanto ti piace
L’arcobaleno e le nuvole a forma d’Inghilterra
le pozzanghere variopinte di gasolio
La Vespa bianca e le sigarette
Il rasoio sulle gambe ed il bikini coi lacci viola
La domenica e la noia del pomeriggio in centro
con l’ansia dentro e non sai di che
La prima volta che guardi
dentro gli occhi di un ragazzo fino in fondo
La gonna e il tacco basso di vernice
che non ci sai camminare
E a ballare anche tu con le amiche quelle grandi
che non perdonano e scopri che sei bella
La prima volta che il cielo stellato ti rapisce e
ti senti piccola ma non sola
Il rosso del tramonto in fondo al mare
Sentirsi al sicuro
L’illusione che durerà per sempre
Le prime chiavi di casa
le chiavi della tua prima casa.

venerdì, giugno 01, 2007

Chiara

Ha sempre avuto la sensazione che le mancasse un tassello al mosaico della propria vita. Fin da piccola, sebbene avesse ricevuto un’educazione prettamente cattolica, era sempre stata convinta di aver fatto qualcosa di sbagliato in una vita precedente, di doversi meritare una punizione nella vita attuale e per questo era condannata a non essere capita. Era una cosa che le dava tremendamente fastidio quella di non essere compresa, la faceva impazzire di rabbia essere imputata di un pensiero, un’idea spesso contraria a quella che lei nutriva in realtà. Era arrivata a domandarsi se fosse lei a sbagliare, a comunicare le proprie idee in modo incomprensibile e travisabile. Oppure a credere di pensare una cosa e vivere poi in modo incoerente ai propri pensieri. Poi capì che la gente capisce quello che vuole capire. Anche lei era vittima di questa debolezza umana, a volte le capitava di fraintendere un messaggio solo perché in testa sua era vera una cosa e delle parole altrui ascoltava solamente ciò che dava conferme a questo suo pensiero. Finché il pensiero non muta dall’interno non riesce a scorgere il proprio inganno. A volte il mutamento avviene velocemente, altre volte l’inganno l’accompagna per molto tempo. Le parole la affascinano, lo strumento più diretto che ci è dato per interagire ingannare ed ingannarsi. Però la domanda rimane. Si chiede ancora cos’è che ha fatto di così terribile che non riesce ancora a perdonarsi. Sa che deve sciogliere questo nodo ma che non è ancora arrivato il momento. Intanto sogna di avere un figlio. Anzi, una figlia. Sa che una buona parte di questo desiderio è generato dal bisogno di coccolare ed accudire la bambina interiore che da dentro reclama un amore speciale. Qualcuno che la capisca come nessuno ha mai fatto fino in fondo. Un complice. Un rapporto rischioso, ne è consapevole. Ma il desiderio è forte.