Ogni donna dovrebbe avere un gatto. E’ un animale indispensabile alla donna, l’unico animale capace di starle accanto in modo paritario. Il gatto e la sua donna - forse è più corretta come definizione del rapporto - sono legati da profondo rispetto e fiducia. Il gatto insegna l’arte del distacco, della pazienza, insegna a sentire, a riconoscere i segnali, ad acuire i sensi, ad affinare le percezioni sottili. Apprende alla donna a cogliere i segni ed i messaggi, a formulare le risposte alle proprie domande partendo dalle coincidenze e a schivare i tranelli della psiche. A spogliarsi dal mondo contingente e a scendere dentro il proprio inconscio. A sentire la ciclicità della Natura e quindi la propria. Nessuno però, può capire la loro lingua segreta, fatta di sguardi, passi, contatto, movimenti, posizioni fisiche, rituali. Questo non significa che ogni donna che possiede un gatto presti attenzione ai suoi insegnamenti.
Quando decisi di prenderlo con me, John Carter, era molto piccolo, non aveva ancora aperto gli occhi del tutto. Era in una gabbia con i suoi otto fratellini ed attirò subito la mia attenzione. Decisi però di prendere una femmina visto che i due maschi che avevo avuto precedentemente erano morti a causa delle loro scorribande procurandomi molto dolore. Appena allungai la mano nella gabbia per prelevare una femminuccia bianca dal mento nero però, proprio lui, quel maschietto che avevo a malincuore scartato, mi saltò sul braccio e si arrampicò sulla manica della maglia. Mi scelse, così come istintivamente io avevo scelto lui e non esitai un attimo a ritornare sulla mia decisione. Ce lo portammo a casa, allora vivevo ancora con mio marito, eravamo sposati da poco. Lo allevai con una siringa senza ago mescolando omogeneizzati e latte, dormendo la notte con una mano nella sua scatola per rassicurarlo e perché non piangesse. Mi faceva un enorme tenerezza quel piccolo essere che dipendeva da me per ogni piccola cosa. Ricordo che ci mettemmo una settimana a scegliere il nome adatto a quel piccolo essere tremante e poi, proprio per questa sua mancanza di coraggio, confermatasi poi nel tempo, lo chiamammo antiteticamente John Carter, come il valoroso eroe del ciclo di Marte.
Mio marito era morto. Era questa l'atroce realtà dalla quale cercavo ad ogni costo di sfuggire. Avevamo litigato furiosamente, non riuscivo più a sopportare la sua crescente arroganza e la sua presunzione. Ero certa che la sua rabbia dipendesse dalla frustrazione e non riusciva nemmeno ad ammettere di esserne tormentato. Non si sentiva realizzato sul lavoro e non vedeva prospettive e via d’uscita e per questo se la prendeva con me che affrontavo la vita con entusiasmo. Avevo una grande stima per lui, questo lo faceva sentire forte e sicuro. Ma quando si rese conto che capivo il suo disagio, che mi rendevo conto della voragine che lo stava divorando, della sua fragilità, si sentì smarrito, temette che avessi smesso di vederlo come il mio eroe e non mi perdonò mai per questo. Non accettava le mie rassicurazioni, la mia comprensione, il mio sostegno, i miei incoraggiamenti. Erano come pugnalate al suo amor proprio. Cominciò a comportarsi in modo strano, ad allontanarsi. Litigavamo continuamente ormai oppure ci ignoravamo per giorni. Così, dopo poco più di un anno decidemmo di separarci per un po’. Io restai nella nostra casa con John Carter. Lui invece se ne andò nel piccolo appartamento in città lasciatogli da suo nonno paterno. Non era completamente abitabile, aveva quindi deciso di fare delle modifiche e delle piccole ristrutturazioni e speravo che tenendosi occupato con dei lavori manuali, in cui, tra l’altro, era molto bravo, sarebbe riuscito a rasserenarsi.
1 commento:
Non me ne sto perdendo uno, la cosa si fa interessante...
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