martedì, luglio 10, 2007

VII capitolo - Il caso

Decisi per quello di fotografia. Fotografare è un modo per catturare la realtà e quello che sta fra gli occhi e il cuore, se è nel cuore che risiedono i sentimenti, le sensazioni, le emozioni. Un modo per afferrare il tempo. E così, un’altra sera alla settimana sarebbe stata rubata alla tempesta dei pensieri o avrebbe offerto un alibi a quelle serate organizzate dalle amiche single che, convinte che ti serva una botta di vita, insistono per trascinarti nell’ultimo disco bar dall’arredamento minimal chic pieno di gente triste con il sorriso di plastica ma fashion. Loro non sanno che sono costretta a frequentare tutti i giorni gente di plastica ed anzi mi invidiano perché di quel mondo vedono solo quello che appare. Io invece sentivo proprio il bisogno di frequentare gente normale, che vive una vita normale, con problemi normali e che magari ha voglia di ridere davvero.
Arrivai in ritardo alla prima lezione, entrai nell’aula che erano già tutti presenti. Intravidi una faccia conosciuta che sulle prime non riuscii ad inquadrare. Era l’insegnante di francese. Uscendo ci fermammo a fare due chiacchiere davanti ad un caffè nel piccolo bar antistante. Mi raccontò che era di passaggio in Italia, che da li a qualche mese sarebbe rientrato a Parigi. Aveva accettato di insegnare per guadagnare qualcosa e al corso di fotografia si era iscritto per svago. Conosceva poche persone qui. Non mi disse altro e io non glielo chiesi, non è mia abitudine essere invadente e forse non mi interessava nemmeno sapere altro. Lo trovai simpatico e gradevole. E innocuo.
La mia vita in quei giorni scorreva uguale e tutto sommato questo mi piaceva. Per lo meno non rischiavo di scuotere ulteriormente i miei poveri nervi già messi a dura prova. L’unica novità era rappresentata da questi nuovi appuntamenti serali e dal fatto che di tanto in tanto riuscivo a non pensare a mio marito.

Per fortuna la campagna vendite per la stagione estiva si era conclusa qualche settimana prima e in ufficio potevo occuparmi delle piccole magagne lasciate in fondo al cassetto, che se ne stavano lì buone buone in attesa che trovassi il tempo per loro. Tutte cose che potevo disbrigare senza la necessità di un eccessivo contatto umano e che portavo a termine quasi meccanicamente. Avevo bisogno di rigenerarmi e probabilmente avrei anche potuto pensare di prendermi qualche giorno di vacanza ma questo avrebbe automaticamente comportato un’enormità di tempo libero in più e i pensieri avrebbero fatto a gara per occupare la mia mente. Ero davvero in una di quelle fasi della vita che Paolo Fox stava definendo da qualche settimana come “di passaggio”. Ma di passaggio per dove, mi domandavo. Io non volevo andare da nessuna parte. Avrei voluto che mio marito continuasse ad apprezzarmi, a riempirmi di attenzioni. Avrei voluto un figlio. Avrei voluto continuare a scoprire il mondo insieme a loro. Non avevo mai avuto un’ambizione sfrenata sul lavoro, mi bastava un ruolo interessante, che mi permettesse di crescere e di non annoiarmi, di avere un buono stipendio certamente, ma le gratificazioni maggiori desideravo riceverle fuori dalla porta dell’ufficio. Volevo continuare a vivere a modo mio. Volevo continuare a fare il bucato il mercoledì e a stirare le sue camicie il giovedì, per riporle la mattina dopo, ripiegate e in ordine nell’armadio grande. Volevo fare la spesa insieme ai grandi magazzini. Volevo continuare a leggere gli stessi libri e a commentarli insieme. Volevo continuare ad andare in vacanza al mare in agosto, a fare l’amore il sabato e ad andare a pranzo da sua madre la domenica. All’improvviso mi si gelò il sangue e vidi me stessa dall’esterno, come riflessa allo specchio. Davvero volevo questo, io volevo davvero queste cose? Mi tornò in mente quello che mi diceva Gaia qualche tempo prima: Niente avviene a caso, mia cara! Sei tu che provochi certi avvenimenti nella tua vita, sei un essere causativo, non dimenticarlo!

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