lunedì, giugno 18, 2007

V capitolo - Un vicolo cieco

Da un’amica comune ero venuta a conoscenza del fatto che mio marito aveva ripreso a frequentare dei vecchi amici, soprattutto uno, Michele, un tizio con il quale non ero mai andata d’accordo per i suoi modi arroganti e la sua smodata misoginia. Michele era di famiglia benestante e la vita era sempre stata facile per lui. Gestiva una piccola azienda che il padre gli aveva procurato ma era sempre in giro con la sua macchina sportiva e dei suoi affari si occupava poco. Troppo poco, appunto. Ci eravamo scontrati varie volte, rimanendo su toni cortesi, ma era evidente che non mi sopportava e a lungo andare avevamo smesso di frequentarlo. L’occasione deve essergli parsa ghiotta: aveva finalmente la possibilità di farmela pagare. Roberto era in un momento di forte fragilità e anche se quella di separarci era stata una decisione comune si sentiva abbandonato. Era soprattutto tanto arrabbiato con me, covava un infinito risentimento ma non riusciva, o non voleva riuscire, a focalizzarne la ragione. Ci pensò Michele a insinuare nella sua mente tutti i dubbi e le incertezze che poté. Ogni sera se lo trascinava dietro per locali ed ogni sera Roberto rincasava ubriaco e spesso, in quello stato, mi chiamava. Per me ricevere quelle telefonate nel cuore della notte e sentirlo in quello stato era uno strazio. Trascinava le parole e mi diceva cose orribili e senza senso che mi lasciavano in uno stato di forte choc. Conclusa la telefonata me ne restavo per ore seduta sul letto, tremando. Molte volte ero stata tentata di dirgli di tornare a casa ma facendo violenza su me stessa mi trattenevo. Sapevo infatti che, in caso avesse accettato, la convivenza sarebbe stata disastrosa. Ma temevo soprattutto che non accettasse. Sapevo che avrei avuto una sola occasione con lui. Una volta che mi avesse detto no, no sarebbe rimasto per sempre. Era troppo orgoglioso, Roberto. Ma sapevo, ero certissima che mi amava da morire, così come io amavo lui. Era solo un periodo nero, tutte le coppie ne affrontano diversi nella vita, di periodi così.
Non sopportavo quelle telefonate, eppure le aspettavo. Quando il telefono non suonava facevo le peggiori congetture e vivevo nell’ansia fino a che non riuscivo ad avere sue notizie per vie traverse. Mi rifiutavo di cercarlo direttamente. Il suo orgoglio mi aveva contagiata e le cose andavano sempre peggio; questa separazione, invece di aiutarci a trovare un equilibrio ci stava allontanando sempre di più. Eravamo entrati in un circolo vizioso di rancore e risentimento, rabbia e frustrazione. Avevo perso quel po’ di lucidità che mi aveva guidata durante tutto quel periodo, che mi rendeva certa del fatto che stavo facendo la cosa giusta. All’inizio desideravo che riuscisse da solo a trovare la propria serenità, ero convinta che solo così poteva trovare una serenità vera. E invece, da solo era sempre più smarrito. E anche io.

Ci eravamo conosciuti dieci anni prima, io e Roberto. Eravamo entrambi molto giovani. Rimasi subito affascinata dai suoi modi cavallereschi, dai suoi occhi sinceri e magnetici. Parlavamo per ore ed ore, dimenticandoci di tutto intorno a noi. Ci raccontavamo tutto e ci sorprendevamo continuamente di pensieri e desideri comuni. Ci innamorammo perdutamente uno dell’altra in pochissimi giorni. Aveva molti interessi e una discreta cultura nonostante avesse interrotto gli studi – all’epoca disse perché aveva bisogno di lavorare e gli credei perché non poteva esserci altra ragione valida – oggi so che lo fece perché non era sicuro di potersi meritare di avere ambizioni che lo spingessero più in là di ciò che aveva fatto suo padre.
Sulle prime mi sentii un po’ soffocata dalla sua continua richiesta di attenzioni ma allo stesso tempo non avrei saputo fare a meno delle sue. Era un po’ troppo possessivo forse e dovetti a mano a mano rinunciare a molte delle mie amicizie e a difficoltà riuscivo a mantenere una certa indipendenza. Non era geloso solo degli amici ma anche dei colleghi e a fatica si tratteneva dal fare commenti spiacevoli. Era però molto garbato con me, mi riempiva di pensieri romantici, riusciva sempre a sorprendermi con piccoli gesti. Il nostro tempo libero lo passavamo quasi esclusivamente insieme e riuscivo a coinvolgerlo in molte delle mie iniziative. Facevamo tanti progetti e fin da subito eravamo certi che il nostro futuro sarebbe stato insieme. Ero felice, nonostante oggi mi renda conto che il nostro era un rapporto forse un po’ troppo esclusivo che ci isolava dal resto del mondo impedendoci una crescita individuale parallela a quella di coppia. Fu questo soprattutto che ci portò inesorabilmente a quella rottura, non certo la mancanza di amore.

L’acqua è ormai fredda e la mia pelle raggrinzita. Uno spasmo di brividi mi scuote riportandomi ad una certa lucidità. Esco dalla vasca, mi avvolgo in un morbido telo di spugna e mi siedo sullo sgabello di legno intagliato, cimelio di uno dei tanti viaggi fatti in Europa orientale. Ripenso a quando lo acquistammo, io e mio marito. Eravamo in Bosnia, l’anno dopo la fine della guerra. Ripenso allo sgomento nei nostri occhi visitando quelle regioni martoriate dalla barbarie della guerra, rifletto sul senso dell’odio, a cosa porta all’incapacità di dialogare e alla scelta della violenza come soluzione. Non riesco ad andare oltre in questi pensieri, finisco di asciugarmi, vado in camera da letto e mi metto sotto le coperte. John Carter mi segue e si accomoda sui miei piedi.

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